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il giorno dopo

Nel momento in cui stava per entrare nella fase terminale della sua malattia, l’attore comico Bob Monkhouse usava scherzare sulla sua condizione e su quanto questa, nelle circostanze, lo ponesse di fronte al fatto che la peggiore parte nel processo di morire fosse quello relativo alla certezza che, il giorno successivo all’evento, egli si sarebbe trovato in uno stato estremo di rigidità.

Per quale motivo dovremmo drammatizzare un evento che, prima o poi, interesserà tutti noi.

Come sosteneva il filosofo Spinoza, non pensare affatto alla morte ma soltanto a vivere la vita costituirebbe  elemento di saggezza, evidentemente però la capacità di elaborazione della quale siamo dotati non ci consente un tale atteggiamento virtuoso. La pervasiva preoccupazione che prima o poi dovremo morire è universalmente diffusa ed ogni società umana offre rimedi per placare lo stato di ansia che tale attività evoca in noi.

Le religioni prospettano una sorta di vita dopo la vita terrena, mentre le più materialiste tra le fedi secolari e laiche suggeriscono, attraverso il concetto di continuità, la quasi certezza che la nostra vicenda esistenziale individuale si colloca funzionalmente alla  base di entità maggiormente  significative quali la nazione, i progetti politici condivisi, la specie umana, in un processo di evoluzione cosmica che nega la prospettiva  dolorosamente certa dell’oblio.

Nella nostra vita personale lottiamo per creare e per consolidare  una immagine fittizia di noi stessi da proiettare al mondo. Carriera e famiglia offrono l’illusione di prolungare il senso del se individuale oltre la tomba.

Gli atti di eroismo eccezionale, i primati stabiliti, le sfide nella pratica degli sport estremi assolvono il medesimo impulso. Lasciare un impronta tangibile del nostro passaggio ci fa sentire meglio in rispetto al fatto che, da morti, saremo presto  dimenticati.

In considerazione di questa premessa sembrerebbe che, nella sua essenza, l’impresa culturale umana costituisca un esercizio teso alla negazione della propria finitudine.

Nel suo libro Immortality: The Quest to Live Forever and How it Drives Civilization del 2012, l’autore Stephen Cave espone con modalità espressive meravigliosamente risuonanti lo sforzo di ricerca spasmodica di vita eterna messo in atto dagli esseri umani nella storia, così come, forse in maniera ancora più vivida riesce a fare Caitlin Doughty nel suo saggio Smoke gets in your Eyes and Other Lessons from the Crematorium del 2015; in suddetto volume l’autrice presenta ai lettori la sua esperienza di vita e di lavoro presso un’azienda di servizi funebri operante in California, evidenziando la misura con la quale le pratiche inerenti tale particolare servizio, siano messe in atto proprio per sottrarre alla nostra attenzione in rispetto all’evento della morte, rimuovendo i corpi dei defunti rapidamente ad esempio, oppure imbellettandone le spoglie tanto da restituire loro un aspetto accettabile ai vivi.

Entrambi questi due testi citati citano, nei vari passaggi, il lavoro svolto dall’antropologo Ernest Becker.

Nel suo libro The Denial of Death del 1973, egli suggerisce che la tenuta a debita distanza dalla morte nella cultura umana assolva il compito di mantenersi saldi al volano della civilizzazione. Tra le numerose imprese umane che conosciamo, sia quelle più apprezzabili che quelle più tragiche e criminali, l’elemento comune è invariabilmente quello legato, appunto, alla giusta distanza tra l’essere vivi e carne del mondo e il non esserlo affatto.

Ma il lavoro di ricerca di Ernest Becker e’ stato anche fonte di ispirazione per un altro testo importantissimo su questo tema: The Worm at the Core opera di tre psicologi Americani, Sheldon Solomon, Jeff Greenberg e Tom Pyszczynski tra le quali pagine essi riportano quanto segue:

“… in un grigio pomeriggio di Dicembre del 1973 il filosofo Sam Keen, contributore della rivista Psychology Today, si recò all’ospedale di Burnaby, British Columbia, per intervistare un paziente ricoverato presso la strutture, nel reparto terminali di oncologia, al quale non erano rimasti che pochissimi giorni di vita. Non appena entrato nella stanza che accoglieva quest’uomo egli , con un tocco di rara ironia, considerate tali circostanze, disse lui “ … mi becchi proprio in extremis! Questo e’ il test finale che avvalorerà tutto il  lavoro di ricerca da me svolto negli anni sull’evento della morte nella vita delle persone…. ecco, avroò certamente, e molto presto, la possibilità di mostrare come muore un uomo!”

L’uomo in fin di vita altri non era che Ernest Becker.

Parlando con Keen, Becker ebbe modo di tirare le somme sulle sue teorie le quali, ancora oggi, sono oggetto di discussione e di ulteriore sviluppo: 

Costruiamo caratteri e cultura allo scopo di schermarci dalla devastante certezza della nostra morte e di quanto siamo in una posizione di assoluta impossibilità di evitarla.

Quella di Becker non può essere definita una carriera facile.

Nato nel 1924, diciottenne si arruola in fanteria e serve in Europa in un battaglione dell’esercito che libererà dai Nazisti un noto campo di sterminio. Dopo un periodo di impiego presso il Dipartimento di Stato all’Ambasciata Americana a Parigi, decide di intraprendere gli studi di antropologia facendo ingresso nel circuito accademico. Si muove tra diverse difficoltà da un’università all’altra, sempre amato dai propri studenti, i quali ad un certo momento nelle vicissitudini del docente, si offrono di pagare personalmente il salario di Becker per consentire lui di rimanere all’università Californiana di Berkeley. Di contrasto, mai particolarmente apprezzato dai colleghi. Nel 1974 al suo The Denial of Death viene riconosciuto il Premio Pulitzer, ma soltanto dopo due anni dalla morte dell’autore avvenuta nel Marzo dello stesso anno.

Solomon, Greenberg e Pyszczynski vennero a conosenza del lavoro di Becker all’inizio degli anni ottanta: “… per noi fu una rivelazione… Becker ci spiega come il terrore della morte guida la specie umana in ogni suo atteggiamento … “ – Colmi di entusiasmo i tre giovani psicologi tentarono di condividere le idee di Becker ad un evento che si tenne presso la sede Society for Experimental Psychology. In quell’occasione la audience si diradò non fu chiaro che la loro presentazione era influenzata da psicoanalisi e filosofia esistenziale, come si cominciò a menzionare Marx, Kierkegaard, Freud e lo stesso Becker i più affermato tra gli psicologi presento cominciarono ad avvicendarsi verso l’uscita. successivamente i tre presentarono il loro lavoro ad una pubblicazione accademica soltanto per ricevere, alcuni mesi dopo, un riscontro da parte loro dove si legge “… non c’è alcun dubbio da parte di chi scrive che il vostro lavoro non sarebbe di alcun interesse ai ricercatori  che fanno capo a questa comunità scientifica …”.

Di certo Becker non si sarebbe meravigliato di tale accoglienza.

Con caparbietà i tre continuarono per i seguenti 25 anni a svolgere il proprio lavoro di ricerca e a testare le idee risultanti da esso.

La fusione in un unicum del  pensiero esistenziale con pratiche e risultati empirici in ambito delle scienze sociali, i tre sostenevano, genera una serie di comportamenti umani stereotipati: disturbi di tipo ossessivo compulsivo, l’ansiosa rincorsa alla ricerca di piaceri di tipo sessuale finalizzata al consolidamento di un maggiore senso di auto stima, fino ad atteggiamenti vessatori e violenti atti a minacciare l’integrità di coloro i quali tentano di diffondere idee ritenute non idonee allo status quo.

The worm at the Core rimane il testo maggiormente comprensivo e basato saldamente sull’idea che scacciare via la consapevolezza della nostra mortalità è fattore principale nello svolgersi della vicenda e della condizione umane.

In considerazione della iniziale reazione bigotta e della mancanza di coraggio esternate dalla comunità accademica di quegli anni, poter tornare a parlare oggi del lavoro svolto da questi ostinati ricercatori ha un importanza davvero rilevante.

Al tempo stesso e attraverso una sua lettura più critica The worm at the Core sembra soffrire di una certa negligenza nella maniera con cui si cerca di dare una spiegazione agli impulsi conflittuali che i suoi contenuti ispirano nel lettore. E’ comunque vero che la consapevolezza che  un giorno dovremo morire ci distanzia e ci diversifica, più di ogni altra cosa, da tutti gli altri animali.

E’ vero anche che, sottolineare che la paura di morire con la conseguente negazione della morte stessa rimane una delle forze piu’ potenti nella vita delle persone.

Ciò che sostanzia una lettura critica di quel testo, tanto quanto quelli che presentato le stesse idee, è il fatto, anch’esso innegabile, che molti esseri umani mantengono un atteggiamento ben diverso nei confronti della morte.

Non tutte le religioni possono venire definite come culti votati all’immortalità.

Il terrore della morte occupa universalmente uno spazio connotato da  preoccupazione e timore e il tentativo di sottrarvisi possono venire rilevati in molte diverse culture e tradizioni, inclusa l’alchimia Cinese, ma il desiderio di vivere in eterno appare in maggiore misura tra le società i cui valori si rifanno e sono plasmati  da fedi di tipo monoteistico, particolarmente in quella Cristiana. La credenza di una “vita dopo la vita” non appare centrale nella religione Giudaica ad esempio.

Nell’antica, politeista Grecia, si credeva che la mortalità degli umani rappresentasse motivo di invidia da parte degli Dei, la quale immortalità veniva rappresentata come una specie di dannazione, l’eternità una noia senza fine.

In diverse delle loro versioni sia il Buddismo che l’Induismo esprimono una ricerca della forma mortale, la promessa di una stasi nel ciclo di re-incarnazione, trasmigrazione e rinascita.

Per gli antichi poeti e per i filosofi del periodo pre-Cristiano in Europa, la morte non era assolutamente una così brutta cosa.

Lo stoico Seneca, vissuto tra il 4 prima di Cristo e l’anno 65 dopo Cristo, esortava i propri seguaci a non temere la morte e di organizzarsi intorno al progetto di porre fine alla loro esistenza laddove si ritenesse di avere di già assaporato i piaceri più fini della vita.

Ancora più radicale, il poeta Greco Theognis, attivo intorno al sesto secolo prima di Cristo, dichiarava che la cosa migliore sarebbe stata quella di no essere mai nati, persino Nietzsche riprese questa linea nel suo lavoro letterario di analisi sulla cultura Ellenica.

Nel suo poema Tess’s Lament, Thomas Hardy narra che l’eroina protagonista della storia avesse dato voce ad una simile raccomandazione … “ … non posso sopportare le obbligazioni della vita, annullerò la vita, azzererò la mia memoria … “ – il sentimento espresso dalla protagonista, Tess of the d’Urbervilles, usa il termine un-be, come dire, ancora più fortemente di “ cessare la mia vita “ si intende disfare la vita, o meglio, non venire al mondo.

La protagonista dipinta da Hardy illustra la potenza dell’intuizione di Freud sull’ambivalenza umana sia di determinare una estinzione completa della specie tanto quanto di ritrovare sempre le risorse per vivere ed andare avanti.

In The Black Mirror lautore Raymond Tallis, svolge tutti gli studi per maturare una competenza nel campo della medicina e dedica la sua professionale alla geriatria e alla filosofia. Nella parte iniziale di questo particolare e strano libro  egli scrive che essere filosofo “ …equivale ad essere un osservatore casuale ed il picco di massima osservazione garantito dall’evento del trapasso costituisce l’ultra ne plus di un dato punto di vista filosofico … volgere lo sguardo su ciò che e’ stato della tua vita dalla prospettiva virtuale di uno che gli è sopravvissuto …” – Il libro in questione ripropone implicitamente l’ingiunzione di Spinoza  menzionata all’inizio di questo breve trattato,  “… l’individuo davvero libero dovrebbe viversi  la vita senza pensare alla morte…  lo scopo di vivere da filosofi ci impone di morire da filosofi, vale a dire, di morire nei pensieri e nell’immaginazione prima di morire fisicamente …”.

Questa affermazione rappresenta un poco il paradosso centrale del testo in questione, se desideri vivere in accordo con dei principi filosofici ebbene, dovrai considerarti di già morto, ma fare ciò appare un opera impossibile, Tallis ammette, visto che quello che accade quando la vita volge al termine non ci è concepibile.

Come possiamo farci un’idea della non-esistenza?

Se siamo tormentati dal pensiero di morire, una delle cause di questo stato di sofferenza è certo quella della nostra impossibilità di immaginarci morti.

E’ davvero difficile credere che su questo versante la filosofia e i filosofi possano essere di alcun aiuto.

In The Black Mirror Tallis esplora la vita che sarà andata perduta dal momento che egli se ne sarà andato, in questo esercizio l’autore discute anche gli aspetti e gli stati emotivi relativi al lutto e di quanto, a volte, la sopportazione del dolore della morte di una persona a noi cara, superi lo stato di angoscia che ci si figura a fronte della nostra stessa morte, ma questo non costituisce una grossa parte del saggio.

E’ evidente che la principale preoccupazione dell’autore rimane la sua morte, per tutta la durata dello scritto egli si esprime in terza persona.

La prospettiva espressiva in terza persona non costituisce in questo caso un approccio stilistico di narrazione, ma piuttosto un tentativo di arroccamento su di un punto di osservazione esterno a se stesso che non si trasformi però in quello proprio di interamente un altro soggetto. Ma, a meno che non si creda all’esistenza di una mente superiore, divina, tale punto di osservazione non esiste.

Tallis è un ateo convinto, non uno di quegli atei militanti che predicano incessantemente dei mali delle religioni come Richard Dawkins, ma della varietà più rara e intelligente che trova la fede nell’esistenza di una entità divina cosa vuota e incoerente.

Ma se l’idea dell’esistenza di una qualche deità non ha alcun senso allora lo è altrettanto quella che il mondo possa venire osservato da qualcuno che è morto. Dopo tutto chi o cosa stà osservando cosa?

Tallis tenta di adottare questo assurdo punto di osservazione per via del suo desiderio di “ vivere filosoficamente”. L’esercizio di essersi immaginato morto, egli probabilmente spera, lo re introdurrà nel mondo sensiente arricchito di una qualche rinnovata energia.

The Black Mirror, ci dice l’autore “… è in ultima analisi, un lavoro di contemplazione e di gratitudine…” – verosimilmente il libro contiene diverse invocazioni alla bellezza inerente certi scenari naturali, alla brillantezza dei cieli … al semplice piacere di vivere la propria vita anche in un grigio e uggioso mercoledì pomeriggio.

Sostanzialmente però l’umore evocato dal testo ha tuttavia tinte malinconiche nell’accezione psicopatologica della definizione, appesantito dal rammarico che così tanta della vita perduta sia rimasta una esperienza non vissuta.

Giocare ad immaginarci già morti nel tentativo di restituire lustro alla nostra vita rischia di trasformarci in entità fantasmagoriche e, qualora ciò accadesse significherebbe che l’autore del libro ha fallito ad investire così tanta della sua fiducia nel discorso filosofico.

Come ogni buon razionalista di questo mondo ci si vuole far credere che gli impulsi dissonanti che caratterizzano i nostri vissuti possano venire riconciliati da taluni processi riflessivi.

La verità è che l’atteggiamento comune verso la mortalità si distingue intrinsecamente in quanto contraddittoria.

Siamo terrorizzati dalla morte ed è per questo motivo che tendiamo a costruire elaborate difese per mantenerla distante e inattuale mentre, al tempo stesso, ne siamo intrigati e persino attratti tale è la forza trasformativa ad essa attribuita.

Per concludere, non sembra ragionevole rivolgersi al discorso filosofico nella ricerca di un rimedio alla più tipica, nella sua essenza, tra le paure umane, meglio abbracciare una qualche religione oppure, meglio ancora, godersi con un buon quoziente di accettazione la breve e incerta vita di cui disponiamo.

In fin dei conti “ trovarsi in uno stato di estrema rigidità il giorno dopo “ non sarà la fine del mondo. 

Testo liberamente estratto e tradotto da un articolo del filosofo e autore e audace critico dell’Illuminismo John Gray Being stiff the Next Day appare nel volume Gray’s Anatomy, una selezione dei suoi scritti più polemici e controversi edito da Penguin Philosophy nel 2009 poi ristampato e aggiornato nel 2015

L’invenzione della Specie

Il 29 Maggio scorso presso la Libreria Anomalia a Roma abbiamo assistito con interesse alla presentazione del libro L’invenzione della Specie, di Massimo Filippi, volume edito da Ombre Corte.

Il testo che segue ne è la trascrizione più’ accurata che siamo riusciti a renderne.

A cura di GiEsse.

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Viviamo all’interno di una norma sacrificale dove si incrociano una Ideologia che giustifica lo smembramento dei corpi, non solo quelli animali, ed una serie di dispositivi che rendono possibile tale  smembramento.

(Tesi principale del libro).

L’ideologia sostenuta dallo Specismo si rifà alla “macchina antropologica” di Giorgio Agamben, che separa l’uomo dalla nuda vita animale attraverso un’operazione che prevede un centro vuoto, e si avvale di meccanismi che sono simultaneamente, escludenti ed includenti.

Nella macchina antropologica il centro vuoto la connota come un dispositivo   non più antropologico ma specista.

La macchina concettuale descritta da Agamben non traccia la linea che distingue l’uomo da tutte le altre specie viventi ma ne certifica la validità della definizione … Ciò che appare come il prodotto della macchina specista, in realtà, è ciò che essa stessa è chiamata a giustificare.

La macchina specista non scopre mai delle differenze biologiche che caratterizzano l’uomo rispetto al resto dei viventi ma, a partire da una definizione già data a priori dall’uomo di cosa è animale, sembra produrne una  descrizione naturale. In realtà l’operazione in atto   è quella di  legittimare come naturale una operazione che in realtà non lo e’.

Definire qualcosa come naturale, nella nostra tradizione, vuole dire svuotarla della storia e trasformarla in qualcosa di  utile ( legittimante ) ai meccanismi di potere. Qualcosa presente da sempre, immodificabile, quindi indiscutibile.

Sono stati tanti i passaggi che hanno portato alla costruzione dell’Uomo così come lo pensiamo e dell’Animale così come lo pensiamo, componenti  di un processo che a partire dal Neolitico, attraverso le religioni monoteiste, il Rinascimento, la Rivoluzione Industriale, hanno edificato e modificato i  sistemi di potere così come li ha descritti  Michel Foucault .

Ma il punto fondamentale è ribadire che ad un certo punto, estratto lavoro e profitto da determinati corpi, corpi simili a quelli dei loro sfruttatori, diventa necessaria una ideologia che giustifichi e che  permetta il perpetuarsi dei meccanismi di smembramento ( di quei corpi ).

In ambito umano, in certi ambienti, è dato per acquisito che  prima nasce il razzismo poi le razze.

Prima nasce lo specismo ( la macchina specista) poi si inventa le specie.

Questa ferrea divisione e classificazione , fa si che divenga necessario un distanziamento simbolico tra l’Uomo e l’Animale, una presa di distanza che fa partire un vero e proprio delirio per cui l’uomo è l’animale con qualcosa in più che lo rende speciale, queste distinzioni consistono sempre in tratti biologici.

Cio’ che colpisce chi osserva   la questione da una prospettiva politica e’ l’idea che esista un qualche tratto biologico, che nel nostro caso è  il colore della pelle, la forma del naso, possedere un pene o una vagina.

L’idea che un dato tratto biologico sia presente senza accezioni in una certa classe e sia assente in un’altra, è esso stesso contraddittorio rispetto alla biologia Darwiniana che parla di differenze quantitative e non qualitative, ma questo è ciò su cui si fonda la divisione, cioè l’esistenza di un tratto che caratterizzi l’Uomo dal resto del vivente.
L’altro aspetto che dovrebbe farci saltare sulla sedia è che questo aspetto biologico, che caratterizza l’umano dal resto del vivente, è sempre qualcosa che ha a che fare con le funzioni cognitive. Il terzo punto è l’ostinazione con cui non si è mai smesso di cercare delle prove per dimostrare questa differenza definitiva ed incontrovertibile. ( A questo riguardo ) Ci sono sempre molti esempi ma il più adatto allo scopo  è quello in cui noi definiamo l’umano più intelligente perché ha un cervello più grande.

L’espansione coloniale, ci ha portati a contatto con animali con un cervello più grande del nostro ( l’elefante, la balena..) quindi il sistema di riferimento va in crisi e si corregge: ( adesso di parla ) della dimensione dell’encefalo in relazione alla massa corporea. ( In questo modo ) … Sembrerebbe che la scala sia ricostruita, fino a che   compare sulla scena un personaggio di cui nessuno sapeva l’esistenza :  il “topo-scoiattolo” , il quale,  sfortuna vuole, abbia un rapporto cervello massa corporea migliore del nostro. ( Ecco che ) … Allora vengono introdotte altre correzioni : rapporto più efficiente tra dimensioni degli organi e variabili fisiologiche comportamentali …  In questo caso sono i delfini che ci vengono molto vicini!  Ed allora vengono introdotti i tassi metabolici
Dovrebbe colpirci questa pervicacia, a tratti ridicola, che mostra la malafede e la artificialità della costruzione di queste barriere, artificiosità che si maschera dietro ad una presunta naturalità,  dietro alla finta scoperta di un tratto davvero distintivo tra l’Umano ed il resto del Pianeta.
L’artificiosità di questo processo è sicuramente il fatto che siamo noi a classificare e guarda caso scegliamo le  ( nostre ) caratteristiche psicocentriche per stilare tale classificazione. Nessuno ha mai cercato di classificare un vivente sulla capacità di volare! Questo metterebbe a rischio un certo impianto nella scala ( gerarchica ) degli esseri viventi. Per chi è abituato a ragionare in termini politici, non si  può non ricordare l’ausilio di altri tratti biologici  utilizzati  per tracciare distinzioni all’interno della nostra stessa specie: colore della pelle, forma dei nasi ecc…..

Il fattore psichico  per la distinzione del folle dal sano ( di cui parla Foucault nel suo ragionamento sull’ideologia nazista) può consistere nel  riconoscimento di una certa bozza cranica ... Quindi l’ulteriore aspetto  politico importante che dovrebbe farci stupire e’ questo pattugliamento dei confini dell’Umano, così ossessivo, così morboso, così ridicolo, così’ oppressivo, così violento.
Quindi se questo è vero, certamente abbiamo molto chiari due ambiti: da una parte l’Uomo , che non è tutti gli appartenenti alla specie Homo Sapiens ma un costrutto molto particolare , di fatto inesistente per cui nessuno risponde mai a questa nuova norma.

L’Uomo è uomo maschio, bianco, eterosessuale, adulto, cristiano, abile, sano, e proprietario. Questa è alla fine  la vera definizione dell’Uomo, a cui appartengono alcuni e non tutti gli appartenenti alla specie homo sapiens. Così come l’animale è tutto ciò che è stato reciso da questa costruzione dell’umano. Un insieme di deliri, di follie di arretratezze, di ani, di vagine, di vulnerabilità, di fluidi corporei, di pulsioni e di inconscio. Tutto ciò viene classificato sotto il concetto di animalità.

Questo non è un puro esercizio accademico, questa vasta operazione ha costruito veri e propri fenomeni di specieizzazione per cui, la dicotomia umano-animale è politicamente rilevante, non solo per gli animali propriamente detti ma, di fatto, è il meccanismo che fa funzionare tutte le dicotomie gerarchizzanti.
Nell’assetto sociale uomo-donna, eterosessuale-omosessuale, bianco-non bianco etc… viene previsto  sempre che la seconda parte della contrapposizione sia svalutata in quanto molto vicina, pericolosamente vicina, all’animale.

Altro ambito è che l’equiparazione all’animale è parte tutt’altro che secondaria ai meccanismi di trasformazione di singolari collettivi discriminanti e oppressivi in “vuoti a perdere”. Il negro, l’ebreo, l’islamico, il frocio, la lesbica, il selvaggio, il migrante etc.. …e nel momento in cui   alla loro stigmatizzazione sociale si aggancia una loro animalizzazione … è l’inizio dell’anticamera della fine.

Il confine uomo-animale, che è definito come naturale ed impermeabile, è dotato di una porosità differenziale molto importante per cui, come dicevo, qualche animale può passare all’interno della categoria dell’umano ma infinite schiere di umani sono passate all’interno della categoria animale.

Questo mi permette di aggiungere un ulteriore tassello a differenza dell’antispecismo classico che ha in mente questo uomo cattivo, riproducendo lo schema dell’antropocentrismo per cui l’uomo è l’animale più cattivo di tutti; tutti gli uomini, indistintamente, lo sarebbero, come se esistesse davvero una specie umana la quale,  indistintamente, opprimere tutti gli altri animali.

In realtà, a mio parere, non esiste una specie padrona ma degli umani padroni.

Questo si traduce in pratiche quotidiane tipo manifestazioni contro, ad esempio,  i cinesi che mangiano i cani, che a mio parere nasconde un atteggiamento xenofobo importantissimo.

L’idea prodotta è quella per cui il signor  Donald Trump e il bambino ( anonimo ) … che perisce sotto i bombardamenti siriani, avrebbero la stessa responsabilità nel massacro dell’Animale … ( sotto i nostri occhi )… quotidianamente. Trovo questo tipo di vedute di una cecità oscena, e queste vedute  purtroppo percorrono il Movimento Animalista.

Credo di aver elaborato cosa si intende per centro vuoto in relazione a ciò’ che  la macchina specista restituisce nella forma di  definizioni biologiche non contestabili. ( Abbiamo visto che ) … In realtà si tratta di qualcosa  deciso a priori sulla base di interessi economico sociali politici molto precisi che la macchina ha il compito di naturalizzare.

Un altro aspetto caratteristico dell’Ideologia dello specismo è la combinazione di meccanismi di esclusione ed inclusione, per cui nel movimento stesso, gruppi con tratti biologici o singoli individui, vengono esclusi e nello stesso tempo sono catturati all’interno del Sistema; nel momento in cui sono inclusi ne vengono espulsi.

( Siamo di fronte ad ) … Una geometria complessa che non permette  approcci  semplificati ( nel senso che ) non c’è un dentro ed un fuori chiaro, il dentro ed il fuori si mescolano.

Per spiegare meglio questo punto in una cornice di relazioni extra umane un altro esempio:  è evidente che noi  includiamo gli animali all’interno della nostra società, addirittura all’interno del nostro corpo, nel momento in cui li mangiamo, di fatto escludendoli. Un individuo che mangio lo includo e allo stesso tempo lo escludo dalla mia società come selvatico etc..

…A  livello intra – umano … nell’antica Atene, fulgido esempio di Democrazia …  Nell’ l’Atene classica, l’Uomo è colui che  ha accesso all’Agorà, cioè colui che non deve dedicarsi ai lavori materiali, che sa argomentare senza farsi travolgere dalle passioni e che parla correttamente il greco. E’ evidente che l’appartenenza a questo club è data per diritto di nascita. Non esiste un apprendistato. L’ateniese proprietario maschio fa parte di questo club esclusivo.Questo è il centro vuoto.

Non c’e’ la ricerca di un tratto biologico che caratterizzi il sistema, ma è il sistema che naturalizza certi tratti ideologici a priori ritenuti importanti per accedere ad un determinato club. Però l’inclusione degli ateniesi all’interno della Polis si realizza nel momento in cui si escludono esplicitamente i barbari (cioè chi non parla greco), le donne (che sono facili prede delle passioni) e gli schiavi (che non possiedono nemmeno il loro corpo).
Ed implicitamente la corporeità animale che percorre anche il più ateniese degli ateniesi.
Simultaneamente l’ateniese non esisterebbe se non si fosse appropriato del barbaro, della donna e dello schiavo, cioè se non avesse dato loro il compito di eseguire le proprie funzioni corporee. Questo è ciò che si intende con il complesso meccanismo di inclusione ed esclusione. L’ateniese non si forma semplicemente con una esclusione ma si forma con una esclusione appropriante ed una inclusione devastante.
L’ateniese si forma nello stesso momento in cui si forma la donna, il barbaro, lo schiavo.

Tornando ai nostri tempi, pensare a cosa accade nella divisione classica tra l’Occidente ed il migrante… ( qui accade )  una operazione analoga. C’è un centro vuoto, in questo caso lo possiamo identificare, sta a Bruxelles o a Washington. Un centro vuoto che ha già definito chi è occidentale e chi migrante e la macchina restituisce questa divisione attraverso una operazione di inclusione escludente e di esclusione includente. Per cui l’occidentale si forma nel momento stesso che respinge il migrante, lo include come clandestino ma se ne appropria come badante. A questo punto siamo attrezzati per completare la descrizione della macchina specista che nel libro viene discussa ampiamente ed è un meccanismo che lavora su 3 passaggi fondamentali:

1 _  la definizione della specie dell’Uomo. 2 _ il centro vuoto.  3 _ la favola che ci raccontiamo, per utilizzare una terminologia Derridiana , per cui noi saremmo il centro del mondo, la nostra vita è sacra (solo la nostra vita è sacra).

L’atto di definire il centro dell’Uomo avviene nel riconoscimento di quel centro vuoto.  (Nell’opera di definizione del centro dell’Uomo si utilizzano quelle caratteristiche cognitive che sono già a priori previste nel lavoro di classificazione.La misurazione della distanza che corre tra questa specie di riferimento e tutte le altre specie (2° passaggio) e,  terzo passaggio, la distribuzione gerarchica delle specie secondo un ordine inversamente proporzionale alla distanza rispetto alla specie di riferimento .

Di fatto, si comprende che abbiamo una favola.

Il riconoscimento del tratto distintivo, del centro vuoto e lo svolgimento di una serie di calcoli,  consentono la misurazione della distanza e la costruzione di una distribuzione gerarchica che ( a loro volta ) permettono la costruzione della macchina specista… ( vale a dire ) … La definizione della specie dell’Uomo, della distanza delle altre specie dalla specie umana e la disposizione gerarchica di ogni specie.

Questo termine … ( specie ) … che sembrava così neutro,  in realtà è quello che struttura l’organizzazione della macchina specista, in tutti e tre i suoi passaggi fondamentali.

Quando la macchina lavora a regime, la favola naturalizza il calcolo ed il calcolo normalizza la favola per cui la macchina funziona da sola,con questo presunto aspetto di naturalità/normalizzazione.

Un appunto che volevo fare che mi distanzia dai miei amici Compagni/e Marxisti, in ambito Antispecista, è che quando faccio questo tipo di ragionamento, non sto dicendo che esistono solo dei meccanismi ideologici, non sto negando gli aspetti materiali dello sfruttamento, sto dicendo che quantomeno una volta che lo sfruttamento è iniziato, i meccanismi ideologici sono fondamentali per permettere il proseguimento dello sfruttamento …

Quindi, per dimostrare che non mi dimentico degli aspetti materiali dello sfruttamento vorrei parlare, nella seconda parte, del Sistema della Norma Sacrificale che abbiamo detto costituito dall’ideologia giustificazionista da un lato e dai dispositivi di smembramento dall’altra.

Io credo che i dispositivi di smembramento possono essere divisi a loro volta in 2 gruppi principali, da una parte i dispositivi materiali, alcuni li conosciamo tutti: allevamento, mattatoio, laboratorio; I quali però hanno delle ramificazioni importantissime, per cui pensate alla scelta della localizzazione dove il mattatoio viene costruito. Alcuni dicono lontano dalla città per nasconderlo dagli occhi. Io che sono più Foucoultiano penso, lontano dalla città perché esiste una medicina sociale che prevede che i miasmi prodotti dagli animali non debbano alterare l’architettura urbana; comunque c’è una scelta politica precisa sul  dove localizzare questi luoghi di sfruttamento … ( e si tiene conto delle ) …  sue caratteristiche più minime , rozze, volgari …  la scelta dell’architettura più funzionale allo smembramento, l’ottimizzazione di quello che potremo chiamare l’interior design, la posizione degli uffici, delle gabbie, dei tavoli operatori, delle catene di smontaggio, l’organizzazione industriale standardizzata dei tempi di lavoro; la scelta delle piastrelle che permettono la più facile eliminazione dei fluidi non commercializzabili.

Esiste tutta una organizzazione di dispositivi di smembramento che va oltre la semplice struttura, nell’ambito animale : il mattatoio; in ambito umano: i campi di concentramento, i Centri di Internamento ed Espulsione, le prigioni, gli ospedali psichiatrici.

Quindi c’è tutta una organizzazione del sistema di smembramento che va ben oltre gli aspetti più macroscopicamente visibili. Un altro aspetto che è ancora meno visibile che nel libro chiamo “i dispositivi performativi” .

Il termine performativo ha assunto altre accezioni più allargate, positive nell’ambito del femminismo ad esempio, però i dispositivi performativi sono quelli che Foucault chiamava: le parole che uccidono.

Il nostro linguaggio non è semplicemente un linguaggio descrittivo, io non dico solo, questo è un tavolo, questa è una sedia. Esiste sicuramente una parte del linguaggio che la teoria degli anti-linguisti ha individuato come  linguaggio performativo che è un linguaggio che modifica la realtà.

Quando c’è un signore che considereremmo bizzarro se non vivessimo all’interno di una norma eterosessuale molto forte, che si veste con una fascia tricolore e che dice d’avanti a due persone, ovviamente una in nero l’altra in bianco, in un Municipio – vi dichiamo marito e moglie – questo non sta descrivendo la realtà, questo sta facendo un atto performativo di modifica della realtà. Per cui si creano una serie di doveri e diritti reciproci che modificano, che soggettivizzano differentemente quell’individuo, modificando la realtà.

Il linguaggio performativo è ovunque, lo stesso succede nelle chiese, dai vescovi che nominavano gli imperatori (ti nomino imperatore, modifica la realtà) a qualche cerimonia a Washington che nomina maschi bianchi, eterosessuali, proprietari, presidenti degli Stati Uniti. Questo modifica anche il significato della realtà. O ancora, in una Laurea universitaria quando io dico: con i poteri conferitimi dalla legge ti dichiaro dottore in filosofia, medicina, ingegneria … io sto modificando la realtà.

Esistono una infinità di dispositivi performativi, parole che uccidono, in ambito umano è evidente, ma anche in ambito animale.

Pensiamo alle leggi nazionali e sovra-nazionali che regolamentano le parti di smembramento ( la macellazione, la sperimentazione) e le leggi che prevedono le sovvenzioni economiche in queste strutture di smembramento. Queste sono parole che però fanno parte dei dispositivi di smembramento.

Le delibere delle associazioni industriali di settore, quello dei sindacati di categoria, le disposizioni regolamentari su dove cacciare su come e dove si possono tenere i circhi, su come fare ristorazione, sulla corretta gestione dei canili, sono tutte parole. Le misure amministrative atte, addirittura, a definire gli spazi dove certi animali possono recarsi e certi altri no.

C’è un aspetto ideologico e c’è un aspetto di dispositivi di smembramento, il quale è molto più ampio di cio’ che siamo abituati a pensare, anche per gli aspetti materiali sarebbe necessario riflettere.

Riassumendo: l’operazione di individuazione delle caratteristiche che permettono di tracciare la linea di confine tra l’uomo e l’animale, non è una operazione naturale ma una   ( di tipo )  normativa e normalizzante. Detto più semplicemente: ciò che permette di distinguere i così detti appartenenti alla specie homo sapiens, non è la semplice osservazione di caratteristiche più o meno esclusive di questa specie, che in sé sarebbero mute, ma la capacità di far parlare certe caratteristiche biologiche  le quali, di per sé,  sarebbero mute e che queste caratteristiche iniziano a parlare perché si trovano all’interno di sistemi di norme.

Per farvi capire ciò che sto dicendo, vorrei passare un attimo dagli animali a situazioni umane, che in parte abbiamo già discusso, così da esplicitare meglio questo punto.

So bene che io sono differente da un cane o da un gatto o ancor più da una blatta o da una pulce, ma il punto che sto discutendo è che alcuni tratti biologici di per sé muti all’interno di una norma cominciano a diventare eloquenti ad esprimere concetti, a parlare. Un esempio classico, visto che viviamo un tempo di “sentinelle a piedi” è quello , sicuramente, di riferirsi alla  costruzione dei generi, dell’invenzione dei generi. E’ ovvio che biologicamente esistono dei portatori di pene e dei portatori di vagina. Il problema è che dobbiamo chiederci come mai all’interno della nostra società, proprio il pene e la vagina diventano parlanti.

Diventano parlanti perché esiste una ferrea norma eterosessuale che prevede che esistano i maschi e le femmine, i quali si soggettivizzano come uomo e come donna e che siano naturalmente attratti l’uno  dall’altra. Ovviamente questa è una costruzione sociale, il che non vuol dire che non esiste il pene o la vagina, ma il pene e la vagina iniziano a parlare all’interno di una norma sociale eterosessuale che prevede che il corpo maschile si costruisca a partire da un pene eloquente .

Il colore della pelle non parla di per sé ma parla all’interno di una norma razziale. Quello che sto cercando di dire è che non esistono i maschi e le femmine e poi si costruisce una norma eterosessuale, ma esiste una norma eterosessuale che ci soggettivizza come maschi e femmine. Ciò non vuol dire che biologicamente non esistono i peni e le vagine, vuol dire che i peni e le vagine, all’interno di una certa struttura sociale, iniziano a parlare in un certo modo.

Poi ci dovremmo chiedere come mai, e qui c’è un’altra intersezione con la questione animale, proprio il pene e la vagina, tra gli infiniti tratti biologici che ci distinguono, diventano così importanti. Siamo una società di allevatori, certamente il fatto di riconoscere istantaneamente chi è maschio e chi è femmina è fondamentale per la riproduzione . Viviamo in una società di allevatori che non è semplicemente quelli che allevano gli animali ma la nostra società è di allevatori che riconosce questo tratto biologico che è immediatamente trasformabile in profitto.
Non esistono solo le leggi o lo Stato, i grandi sistemi di potere. Esistono tutta una serie di fenomeni di microfisica del potere che sono le norme che in realtà costruiscono i nostri corpi, materializzano i nostri corpi in un certo modo. Ci soggettivizzano. Le norme non sono qualcosa che vive nel mondo empireo ma sono il fatto che quando andiamo in un ristorante, sui bagni c’è attaccato il disegnino del maschio e della femmina. Se voi guardate il vostro codice fiscale l’unico tratto biologico che è riportato è se siete maschio o femmina. All’interno della nostra società vige la norma eterosessuale, che ci soggettivizza come maschi e femmine. Norma a cui noi stessi partecipiamo.

Nel momento in cui mi presento vestito in un certo modo vi sto dicendo che sono maschio, se fossi venuto con una gonna sarei apparso ancora più bizzarro di quel che sono normalmente. La norma non solo ci soggettivizza ma siamo noi che continuiamo a replicare la norma. Poi che la norma possa essere costruita in un certo ambito, applicata in altri, che esistano norme conflittuali tra loro e che a volte si possono creare le così dette soggettività devianti o eversive o anomale o contro natura, questo è un altro discorso, ma la norma generalmente funziona naturalizzando e normalizzando.

Sicuramente la norma funziona in ambito della divisione animale, noi siamo abituati fin da piccoli a considerarci al centro del mondo e al centro dell’universo, a definire la vita umana come sacra e ripetiamo questa norma nei nostri atteggiamenti quotidiani.

Noi ci sediamo a tavola a mangiare in un determinato modo, che ci sia più o meno il cadavere sul piatto davanti a noi, però certamente camminiamo in un certo modo, ci spostiamo in un certo modo, non è un tratto biologico è normativo.

Potremmo biologicamente mangiare in una ciotola come quella dei cani ma questo produrrebbe una soggettività preoccupante. Mangiamo seduti a tavola, questo per dire che le norme valgono anche nella definizione di ciò che è umano e ciò che è animale.

Da un lato i Pet, quelli più fortunati, sono soggettivizzati come umani e poi ci sono i ragazzi selvaggi che sono usciti dalla nostra società generalmente per guerre, migrazioni, che sono finiti in società di gazzelle, società di lupi, in società di orsi e hanno performato da orso, da gazzella,  fino a quando sono stati ripresi, generalmente da medici filantropi che li hanno rieducati alla specie umana.

L’ultimo punto che volevo toccare è più interessante per chi si occupa di antispecismo. Se lo specismo è questa norma sacrificale per cui  esistono biologicamente, a priori, dei corpi che contano, che possono ardire a diritti e privilegi , che esistono … ( al contempo ) … dei corpi che non contano … macellabili impunemente … , ma i corpi che contano e quelli che non contano sono costruiti a partire da una norma sacrificale che, a priori, prevede che esistano dei tratti biologici che costituiscono dei corpi che contano ( la stazione eretta, il pollice opponibile, le funzioni cognitive) e dei corpi che, non avendo queste caratteristiche, sono uccidibili impunemente a miliardi. Se questa è la struttura, credo che l’antispecismo si sia poi declinato secondo tre versioni principali: antispecismo dell’identità, della differenza e del comune.

L’antispecismo dell’identità è il primo antispecismo che sostanzialmente lascia l’Uomo al centro dell’Universo. Noi siamo sempre al centro dell’Universo quello che viene suggerito è la modificazione dei calcoli. Per cui modificando i calcoli c’è, in effetti, qualche animale che ha delle caratteristiche simil umanoidi che può essere fatto rientrare all’interno della sfera dei così detti “diritti umani”.

Operazione identitaria, operazione pericolosa a mio parere, perchè per far rientrare qualche animale … ( nella sfera umana ), tra l’altro non riuscendoci (scimpanzé, gorilla, oranghi) in realtà si approfondisce la barriera con tutto il resto. Visione sicuramente colonizzante per cui solo chi è simile a me può entrare nel mio club esclusivo. Sicuramente confondente perché pensa allo specismo come un vero pregiudizio. Il pregiudizio è qualcosa che ha a che fare con il singolo individuo, è una sorta di patologia del pensiero logico. Che può essere come energiche iniezioni di argomentazioni razionali, non a caso si diceva che se i mattatoi avessero le pareti di vetro tutti diventerebbero vegetariani, non mi pare che questo sia successo. Si sono moltiplicate la trasparenza dei muri dei mattatoi ma la tragedia del male semmai è aumentata.

Da qui il progetto grandi scimmie, dal quale nasce anche l’oscillazione ed i continui ripensamenti di Peter Singer e Tom Regan che non sono dettati da preferenze personali e di gusto, ma sono strutturali rispetto all’antispecismo che hanno costruito.

Se voi leggete Singer e Reagan gran parte delle loro discussioni – se i molluschi possono far parte …(di questa o quella categoria ) … o possono essere mangiati, i pesci i mammiferi fino ad un anno di età …
…Insomma … tutta questa serie di problemi non sono perché a uno piace il pesce e quindi sui molluschi si costruiva una teoria… per dar spazio… forse ad un pregiudizio… Bisogna chiedersi se un pregiudizio che vale per la mucca,  vale anche per il mollusco, per il pesce o per un mammifero di età inferiore ad un anno.

Quindi tutto sommato nella visione del primo antispecismo (che io rigetto profondamente pure essendo conscio che non se non ci fosse stato, non staremmo qui stasera ) … ( secondo il quale )… tutto sommato, l’impianto sociale in cui viviamo è un impianto sociale sano, basterebbe ingentilire un pochino il mondo … queste frasi si sentono spesso…
… “ basterebbe smettere di mangiare gli animali perché vivremmo nel mondo migliore possibile”…

Ovviamente, con la consapevolezza personale,  questo che sto dicendo, sembra frutto di elucubrazioni, ma in realtà poi si traduce in pratiche. Non è un caso che il principale meccanismo politico di presentazione del 1° Antispecismo, tutt’ora vigente, è l’evangelizzazione porta a porta.

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C’è una precisa visione sociale.

La Società è costituita da una somma di individui, razionali, informati o potenzialmente informabili, capaci di liberarsi dai propri interessi personali. La tipica visione Liberal della Società. Che poi gli individui non siano razionali, siano disinformati, che ovviamente viene esasperato l’individualismo e l’interesse personale, questa è un’altra questione.

In realtà la visione dovrebbe essere: ciò che struttura una Società non è la somma degli individui ma le relazioni che intercorrono tra i singoli individui. Il modo in cui i singoli individui si rapportano tra loro. E credo che questo sia stato riconosciuto profondamente dall’Antispecismo della differenza, il quale non si impegna più a dire che “ se misuriamo un po’ meglio i confini dell’Umano, possiamo farci entrare qualche animale, ma si concentra principalmente sul 3° dei meccanismi che è quello della trasformazione della differenza di genere.

Questo è il primo grande passaggio che nasce dalla matrice Anarchica, Marxista e Post-Strutturalista del 2° Antispecismo.

L’altro punto importante è che l’Antispecismo non è un pregiudizio morale ma una ideologia giustificazionalista delle pratiche materiali di smembramento già in atto. Quindi se questo spostamento di interpretazione della società per cui la società non è la somma degli individui ma ciò che corre tra questi individui; a questo punto, individui tra virgolette, ovviamente il fuoco, l’enfasi si sposta dalla morale alla politica e dall’evangelizzazione vegana al tentativo di mettere in scacco o di smantellare le strutture che reggono l’ordine sociale che si fonda su queste dicotomie gerarchizzanti.

Quindi, pur nell’embrionicità e nella spezzettatura, nell’inesistenza del movimento antispecista, sicuramente il 2° antispecismo è un Antispecismo della differenza, sicuramente si concentra non sulle scelte individuali “il mondo non si cambia cambiando i singoli gusti dell’individuo” ma si cambia innescando processi storici collettivi, di modificazione radicale dell’esistente. E in questo senso ho una serie di barzellette da raccontarvi se volete.

A partire dall’Antispecismo della differenza … da questo Antispecismo più politico, si immettono alcuni slogan classici del 1° antispecismo, che vengono ovviamente rigettati per quello che sono, appunto, slogan di dubbio valore. A mio parere certi slogan non sono utili ma controproducenti, perché se qualcuno riflette un attimo, scopre l’infondatezza di questi tipi di affermazioni.

Esempi:

“ Poiché la produzione di cibi vegetali è energicamente più vantaggiosa di quella della carne, se tutti diventassimo vegani, si risolverebbe il problema della fame nel mondo” Questo comporta una totale ignoranza dell’attuale sistema di produzione e distribuzione delle merci. Sistema che, ovviamente, piuttosto che dare in beneficenza del cibo in sovrappiù, lo butta in discarica.

Un Sistema che prevede lo smembramento dei corpi e che prevede che ci sia qualcuno che possa morire di fame.

“L’uomo è naturalmente vegano e non onnivoro, come dimostra la sua dentatura, i suoi enzimi digestivi e la lunghezza del suo intestino”. Voi capite che, pensare di attaccare una Ideologia di sfruttamento ripetendo i meccanismi biologici naturali che stiamo cercando di decostruire e soprattutto pensare che un movimento politico serio, si possa fondare sulla struttura dei denti, su che tipo di enzimi digestivi avete, a me farebbe sorridere se non mi facesse piangere.

“I bambini vanno educati al rispetto per i non umani perché molti serial killer prima di uccidere umani, hanno maltrattato animali”. Ovviamente questo vuol dire, trasformare un problema politico in un problema psicopatologico, vuol dire confondere il maltrattamento con il Dominio. Comporta anche un aspetto scientificamente poco sostenibile per cui non ci siamo mai chiesti quanti , così detti soggetti normali hanno fatto azioni di maltrattamento analogo e sono diventati Serial Killers. E ammesso si dimostrasse una differenza statisticamente significativa tra i due gruppi (tra i Serial Killer e i non Serial Killer) in termini di maltrattamento animale, non sarebbe ancora dimostrato il nesso causale tra i due.

Bisogna combattere i circhi e zoo perché educano i bambini alla violenza”. Il discorso è analogo a prima. Il problema non è un problema politico di smembramento dei corpi ma diventa un problema di pedagogia anti-libertaria.

“ La sperimentazione sugli animali si fonda su un errore metodologico come tale è dannosa per l’uomo”. Ovviamente qua si introduce dalla finestra ciò che si tenta di fare uscire dalla porta, cioè l’Antropocentrismo. Ovviamente i farmaci che vengono prodotti sono dannosi per l’uomo, le donne li possono prendere in totale tranquillità (:-)) e soprattutto direi che un reale movimento politico non si dovrebbe occupare di cosa è utile o non è utile per la salute umana, non dovrebbe trasformarsi in metrologia della scienza.

Faccio sempre questo altro esempio:

Non ho dubbi che tutti noi all’interno di questa sala, rigettiamo e condanniamo la tortura intraumana. Non perché possa fornire o meno delle informazioni utili, anche se domani tutti i torturati mi fornissero delle informazioni utili, allora la tortura diventa giustificabile. La tortura è ingiustificata perché comporta inflizione di dolore e smembramento di corpi. Se la sperimentazione animale è produzione e ottenimento di informazioni, perché questo succede, io ottengo delle informazioni dai corpi animali smembrati tramite inflizione del dolore. Un movimento politico serio non si dovrebbe concertare sulla utilità o meno delle informazioni ma dovrebbe concentrasi sullo smembramento dei corpi torturati.

L’ultimo Antispecismo,  quello di cui ho parlato questa sera, è quello che supera i timori dell’antispecismo della differenza, che non si è impegna nella decontrazione del concetto di Uomo e di Specie e, appunto, che si impegna in questo tipo di lavoro.

Se è vero che l’uomo è maschio, bianco, proprietario etc… Abbiamo detto prima, tutta una serie di movimenti  si sono concentrati sulla decontrazione degli aggettivi che rendono  bizzarri tali sostantivi.

Il Movimento femminista Queer, i Movimenti Post-coloniali, l’Antipsichiatria. Non mi pare che l’Antispecismo si sia accollato il compito che io credo sia il suo proprio: decostruire la categoria di Uomo.
Questo Antispecismo si concentra direttamente sulla favola che ci raccontiamo, per cui questo Antispecismo cerca di mettere in dubbio l’esistenza di un proprio, un proprio dell’Uomo, sottolineando appunto che i corpi viventi sono in un continuo processo di differenziazione.

Noi siamo costitutivamente ibridi, meticci, siamo impropri, non abbiamo quella famosa proprietà privata che ci caratterizza come umani, come non esistono proprietà private di altre specie.

L’idea della specie è quello che ho cercato di ripetere più volte:  un utile dispositivo di occultamento di meccanismi di potere molto funzionali alle Elite dominanti per continuare a gestire la vita nei termini di un continuo e progressivo smembramento.
Io ho chiamato comune questo aspetto perché credo che esista una sorta di faglia di vite impersonali che attraversano l’intero vivente sensuale, quindi diventa desiderante, che è caratterizzato da tanti aspetti, come la vulnerabilità dei corpi, noi siamo vulnerabili non perché ontologicamente vulnerabili, ma perché siamo costituiti da rapporti. Quando entro in rapporto espongo il mio corpo alla possibile vulnerabilità.

Siamo corpi finiti che moriranno ma siamo anche corpi in grado di gioire, di giocare, quindi corpi, e questo lo condividiamo sicuramente con gli animali, che sono in grado di rendersi inoperosi e sottrarsi agli imperativi categorici della produttività e della riproduzione.

Chi ha in casa un animale … ( lo sa… ), quando gli animali sono liberi, sicuramente uno degli aspetti che a me ha sempre colpito è la  ( loro ) capacità di gioire, di godere, di giocare, senza un fine prestabilito, quella che si dice “gioia di vivere”.

Questo è quello che io ho imparato maggiormente dagli animali, questa capacità di rendersi inoperosi. Questo non vuol dire ridurre l’entità del dramma ma vuol dire accentuarlo ancora di più. Da un lato volevo portare questo aspetto gioioso alla vostra attenzione, dall’altro se c’è qualcosa di più terribile che far soffrire chi può soffrire è far soffrire chi dovrebbe gioire. La situazione non si semplifica, semmai si complica.

Vorrei dire due parole sulla struttura del libro che è mostruoso in sé perché parte come saggio filosofico e progressivamente si trasforma nel racconto di storie. Succede questo innanzitutto perché abbiamo a che fare con un linguaggio; il linguaggio è la principale delle istituzioni, questo è un aspetto a cui non pensiamo molto.

Il linguaggio è la principale delle Istituzioni che si è creata storicamente, culturalmente e che ha delle concrezioni al suo interno per cui lo rendono specista, sessista e le cose che sappiamo. Tuttavia,  è l’unico strumento che abbiamo a disposizione per attaccare e decostruire questi dispositivi di potere …. come dire, smarcarsi dall’idea che esiste una verità con la V maiuscola, trascendente, universale, per cui riferendosi a questa avremmo la possibilità di smontare certi dispositivi, ma appunto pensare a come e’ il Sistema ( … ) un conto è il reale, ciò che è reale …  un conto è ciò che è vero. Ciò che è vero è una costruzione che si forgia nella battaglia politica.

E quindi l’idea di superare questo aspetto. Ho provato a giocare con il linguaggio per cercare di renderlo inoperoso nella  seconda parte del libro … proprio per cercare di mimare quella gioia animale di cui parlavo prima.

C’è un bellissimo esempio di Agamben, parla del gatto che gioca con il gomitolo, che mette in atto dei meccanismi venatori, resi inoperosi perché non c’è il topo che muore. Ecco io ho cercato di fare un lavoro analogo nella seconda parte del libro con il linguaggio, che discende dalla nostra tradizione, un linguaggio costituitivamente violento, cercare di farlo lavorare contro se stesso di renderlo inoperoso … i fare parodie di parodie per cui l’ultima parte e’ costruita con un lavoro di archivio, di costruzione presa da racconti da narrazioni filosofiche o da referti medici psichiatrici. Costruendo quello che vengono chiamati casi clinici, mimano i referti di polizia, mimano i referti clinici, i referti psichiatrici, i referti degli internamenti carcerari, per mostrarne la loro innaturalità.

Si fa una parodia della parodia un po’ come fanno le Drag Queen , accentuano così tanto gli aspetti maschili e femminili da mettere in dubbio che esista uno stile femminile. L’operazione che ho cercato di fare è una operazione analoga, mostrando con delle copie volutamente eccessive, l’inesistenza del normale e dell’originale, come in una artificiosità di ciò che consideriamo normale ed originale.

Qua faccio sempre una battuta che mi è starà accreditata “ Nessuno di noi riesce a materializzarsi perfettamente nelle infinite norme che ci costituiscono come umani: maschio, bianco, eterosessuale….” –  l’esempio più classico è il presidente degli Stati Uniti,  anche lui, che è l’umano paradigmatico, porta quel cesto giallo in testa che mostra l’artificialità di queste norme. Nessuno di noi, neanche il più paradigmatico riesce ad adeguarsi a questa norma, ed è questa l’operazione che tenta di fare la seconda parte del libro.

Vorrei leggere uno dei casi clinici per rendere conto di questa parte, che è il caso 25, il quale,  credo,  riassuma quello che ho cercato di dire stasera andando a toccare vari aspetti di come la questione animale vista nella sua interezza si ramifica chiaramente anche in termini intra-umani, costruendo quello che viene definito come un delirio di un folle che parla con più voci, alcune le riconoscerete ma questo è poco importante.

Questi pezzi sono costruiti cucendo insieme, in un lavoro certosino e delirante pezzi di altri, sono poche le parole mie qui dentro che servono a collegare una parte con l’altra:

“ Io sono legione, banda, muta. Sono un numero incalcolabile di età, di ore e di anni, di storie intempestive. Siamo i senza nome, le ombre dei nomi, le vittime che non contano perché a noi è stato vietato perfino il racconto. Siamo la mancanza invisibile, la moltitudine sterminata. Siamo le vite che sono come se non fossero mai esistite, dettagli senza importanza, giornate senza gloria, turbolenze così oscure che neppure ci si è presi la briga di trasformare in casi. Io sono i troppi che, nati, è come se non avessero mai raggiunto né attraversato il mondo; il tempo non ha trovato il tempo per assistere ai nostri affanni e ai nostri fallimenti, aveva solo urgenza di disfarsi dei nostri respiri. Io sono i non registrati perché infimi fin oltre l’infamia: il potere non ci ha visti o ci ha annientati in meno di un istante con la luce folgorante del suo sguardo impassibile. Siamo passati senza lasciare traccia. In fondo al mare, tra le macchine, nei campi, nei gommoni e tra le reti, lungo le catene di produzione, nei laboratori e nei mattatoi, nelle guerre e nelle carestie, sotto i colpi della peste, dell’AIDS e delle epidemie, dei fucili, dei bastoni, dei manganelli e dei machete, nelle caserme, nelle sale operatorie, sotto i lampi delle bombe o sopra i bagliori delle mine, negli agguati, nei fossi, nei recinti, nelle gabbie, nella disperazione e nel terrore, nell’estrema povertà. Sotto il letto di un misero albergo a ore. Tutto deve essere detto una volta e ancora un’altra affinché non vada perduto. Sono la polvere che non viene lasciata depositare. Io sono la cenere e il vostro destino, perché tutti, prima o poi, saremo spazzati via dall’oblio. O forse no, dal rovescio del tempo transita tutto: ciò che è conosciuto insieme a ciò che non lo è, a ciò che non lo è, a ciò che non è registrato né tenuto in considerazione. Sono in mezzo a voi, la materia oscura che vi dà forma. Continuiamo a palpitare sotto la terra come se non volessimo scomparire del tutto, siamo una massa ingente di parole, eventi, passioni, delitti, ingiustizie, paure, risate, aspirazioni, ardori, macchinazioni, convinzioni, chimere, pietà, segreti, umiliazioni, discordie, vendette, amori, pensieri, Che cosa è reale e che cosa è fittizio? Non dire che il vivente è un genere diverso da ciò che è morto, ma piuttosto che è solo un genere rarissimo di questo. E non lasciare che muoia ancora, trattieni il tempo, fallo restare, lascia che la polvere ti assordi, che possa far rimbombare le urla intense della sofferenza e della morte, i gemiti fugaci del piacere e del desiderio, le mute grida di speranza, l’assordante silenzio di ciò che è stato escluso ai bivi della materia e della storia. Non lasciare che il nemico vinca due volte. Scrivi, racconta, onora la nostra obbligata memoria, l’assenza di memoria. Io sono collettività, moltitudine venuta dallo spazio e dal tempo. Sono immaginazione sospesa. Sono il pianto di morte e il lutto inestinguibile. Sono la blatta che hai schiacciato e hai visto morire: la materia viva, l’immemorabile, il mondo. Sono l’immensa collettività, la sterminata moltitudine”.

Animali che muoiono

Riflessioni semplici sul fardello che ci portiamo addosso ogni giorno e sulle illusioni nelle quali investiamo per accordarci un primato, quello della straordinarietà in relazione alle altre specie che solcano la terra e al mondo vivente che ci contiene, ci abbraccia e ci accompagna verso la fine a tutti, indistintamente.

Le righe che seguono sono estratte da un capitolo del saggio cani di paglia del filosofo inglese John Gray, un libro che ci mostra cosa sarebbe la nostra vita senza la distrazione delle consolazioni.

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Noi pensiamo di essere diversi dagli altri animali perché’ possiamo concepire l’idea della nostra morte, anche se non ne sappiamo più’ di loro riguardo a ciò che essa porta.

Tutto ci dice che la morte significa estinzione, ma non riusciamo nemmeno ad immaginare cosa questo significhi.

La verita’ e’ che noi non temiamo il passare del tempo perché sappiamo di morire.

Noi temiamo la morte perché non accettiamo il passare del tempo.

Se gli altri animali non temono la morte come noi, non è perché noi sappiamo qualcosa che loro non sanno. E’ perché essi non sono oppressi dal tempo-

Pensiamo al suicidio come ad un privilegio esclusivamente umano. Non riusciamo a vedere quanto siano simili le maniere in cui per tanto tempo uomini e animali si sono dati la morte.

( confrontati da ) malattie gravi che accompagnavano la vecchiaia gli uomini e le donne fino ad un secolo fa assumevano una dose di oppiacei tanto potente da farli addormentare per sempre, talvolta consapevolmente ma spesso per un impulso istintivo, non diverso da quello che guida un gatto quando cerca un posto tranquillo per morire.

Quando l’umanita’ è diventata più’ morale ha allontanato da se queste morti. I greci e i romani preferivano la morte ad una vita senza valore. Oggi abbiamo fatto della scelta un feticcio, ma scegliere di morire è vietato. Forse ciò’ che distingue gli umani dagli altri animali è di avere imparato ad abbarbicarsi in maniera più abbietta alla vita.

Se considero attentamente la vita che un uomo conduce, non vi trovo nulla che possa distinguerla da quella che conduce un animale. Entrambi, uomo e animale, sono gettati a loro insaputa nel mondo e tra le cose, entrambi hanno delle pause di divertimento, entrambi seguono giornalmente lo stesso itinerario organico, entrambi non pensano nulla al di fuori di ciò che pensano ne vivono nulla al di fuori di ciò che vivono. Un gatto si crogiola al sole e va a dormire. l’uomo si crogiola nella vita, con tutte le sue difficoltà, e va a dormire. Nessuno sfugge alla legge fatale di essere chi o che cosa è.

Bernardo Soares

….Vi sono verità che non possono essere pronunciate se non come finzioni letterarie….

 

Cani di paglia è edito in Italia da Ponte alle Grazie

aeterna veritas

genealogia

Difetto ereditario dei filosofi.

Tutti i filosofi hanno il comune difetto di partire dall’uomo attuale e di creder di giungere allo scopo attraverso un’analisi dello stesso.

Inavvertitamente l”Uomo” si configura alla loro mente come una aeterna veritas , come una entità fissa in ogni vortice, come una misura certa delle cose. Ma tutto ciò che il filosofo enuncia sull’uomo, non è in fondo altro che una testimonianza sull’uomo di un periodo molto limitato.

La mancanza di senso storico è il difetto ereditario di tutti i filosofi […] tutta la teologia è basata sul fatto che dell’uomo degli ultimi quattro millenni si parla come di un uomo eterno, al quale tendono naturalmente dallo loro origine tutte le cose del mondo.

Ma tutto è divenuto; non ci sono fatti eterni: così come non ci sono verità assolute.

Per conseguenza il filosofare storico è da ora in poi necessario, e con esso la virtù della modestia.

F. Nietzsche, Umano troppo umano, 1877

mimesisedizioni.it/cosi-perfetti-e-utili.html  un lavoro genealogico sul potere zootecnico: una sorta di scavo archeologico tra gli archivi scientifici e tecnici della cultura del dominio antropocentrico sul resto dei viventi.

Di Benedetta Piazzesi.

 

 

Un Altro Mondo

http://unaltromondo.vhx.tv/ E’ un documentario realizzato di recente  che propone una riflessione sull’interconnessione tra uomo e universo, legame che troppo spesso gli uomini dimenticano di avere. Un viaggio alla scoperta delle conoscenze di antichi uomini tribali, tra fisica quantistica e credenze ancestrali per sfidare la visione moderna del mondo http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/10/01/un-altro-mondo-documentario-illuminante/1139684/

un altro mondo Per compiere questa operazione di messa a fuoco sulle nostre origini di specie e sulla complementarietà che caratterizza la nostra capacità di continuare a sopravvivere ( e a dominare sulla Natura ) con l’ambiente che ci accoglie, il documentarista, autore del film, Thomas Torelli si affida a delle interviste con diversi personaggi del mondo scientifico, spirituale e del movimento new age   oltre che ad immagini di indubbia potenza suggestiva.

In Italia sono già state organizzate diverse date in alcune città e grazie ad una amica ci stavamo attivando per fare una iniziativa simile anche a Grosseto.

La preventiva visione privata del documentario ci ha lasciati però abbastanza  perplessi; principalmente le motivazioni critiche che ci sentiamo di muovere a questo tipo di realizzazioni documentaristiche sono dovute all’antropocentrismo che sostiene la visione di una civiltà ( tutta umana ) che, seguendo il filo narrativo suggerito, finalmente fa pace con se stessa, ristabilisce un ordine delle cose giusto appena più condivisibile dell’attuale ordinamento geopolitico e sociale il quale, attraverso atti di amore universale e azioni di risveglio delle coscienze compie un miracolo e fornisce l’impulso al cambiamento culturale globale che in così tanti ameremmo vedere compiuto.

Il problema è che non si dice COME riusciremo mai a convincere chi detiene il potere ( militare ed economico ) a lasciarci modificare in misura tanto radicale il mondo in cui viviamo.

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Affidarsi alla volontà e alla fede di coloro i quali autenticamente credono alla sacralità della natura umana, alla loro centralità in rispetto al disegno supremo che ci sovrasta, alle abilità organizzative di un movimento che, insieme ad improbabili  connessioni cosmiche, genererebbero flussi di irresistibile, tellurica  forza tanto da determinare un cambio di rotta e una ridefinizione nella mappa dei sentimenti umani che ci guidano per la maggiore ( l’amore al posto dell’odio, la capacità di empatia al posto dell’insensibiltà ) sembra davvero, più che un sogno, una pia illusione.

Anche noi crediamo che il cambiamento debba venire dal basso, o meglio dalle scelte individuali che quotidianamente possiamo decidere di compiere e dalla nostra determinazione a divenire parte in causa ed attiva nei processi di cambiamento: adottando una  alimentazione non violenta ad esempio, o meglio ancora sviluppando un atteggiamento critico tout court verso la società dei consumi la quale, lo sappiamo, per riprodurre il proprio dominio sulle nostre vite necessita della creazione continua di nuovi bisogni fittizzi e di costrutti mentali adeguati alla sua affermazione.

Anche noi crediamo che lo sfruttamento e la devastazione del territorio, l’inquinamento delle falde acquifere, la militarizzazione della società, l’industria bellica, la grande proprietà, la divisione del lavoro, il potere ipnotizzante dei media di massa, l’imperialismo e il colonialismo dei forti sui deboli che impediscono la costruzione di una prospera economia di sussistenza in opposizione a quella rapace capitalistica delle banche e delle grandi corporazioni, noi crediamo che tutte queste cose siano alla radice del malessere diffuso e della mancanza di prospettive per una emancipazione reale dalle catene invisibili del cosidetto progresso.

Il progresso, sappiamo, non è un ciclo lineare come vorrebbero farci credere a scuola. Il progresso è un tortuoso percorso di liberazione da quella  visione lineare della vicenda umana.

In Un altro Mondo quasi tutti gli intervistati sostengono che una interpretazione animistica e soprannaturale del mondo  aprirà le porte a un inedito modo di intendere la realtà e stimolerà un nuovo spirito critico sul presente, generando un migliore e più luminoso domani per le generazioni presenti e future, insomma attraverso l’attribuzione di un valore trascendentale a tutto ciò che ci circonda ( anche i minerali sono vivi ) diverremo tutti parte di questo straordinario organismo vivente che è la Terra e non avranno più un senso atteggiamenti  come l’alterigia, la competizione, la crudeltà, l’indifferenza che invece connotano in maniera totalizzante le moderne società umane come le conosciamo.

Soltanto l’UOMO risorto, riconnesso ,l’Umano” ( che ) si è sempre definito come differente dall’Animale non le singolarità umane, in quanto potenziali artefici del loro destino, solo quell’UOMO potrà restituire   alle future generazioni di popolazioni terrestri l’aspettativa di poter vivere in armonia, in pace con se stesse e con il creato.

Una specie di paradiso perduto, da ritrovare, da rifondare, in un futuro prossimo fatto di redenzione, di luce e di conoscenza infinita (…) paradise_lost_001

Da buoni antispecisti evoluzionisti noi crediamo che quella antropocentrica, come tutte le favole più o meno di successo, metta in risalto il vero posto di questo Uomo nella Natura, ponendolo infatti al di fuori e sopra di essa, e in questa differenza che ci distingue in modo così netto ed univoco dagli altri animali, quelli realmente esistenti, quelli che anche nel documentario di Thomas Torelli continuano a venir persi di vista per essere trasformati in merce, forza lavoro, divertimento e spettacolo, ecco di fronte a loro, anche nella paradisiaca società propugnata in Un Altro Mondo continuiamo ad essere  presi in un’immensa scenografia pornografica dove gli sguardi concupiscono  la carne, arrestano i corpi animali in posture preconfezionate, trasformandoli in oggetti pronti per essere allevati, oppressi e venduti per onorare la folle normalità dei mattatoi.

Niente di nuovo quindi, gli sfruttatori vicini e lontani, i pennivendoli assoldati dalle testate giornalistiche, i guerrafondai, gli assassini dal volto buono e i padroni del vapore di sempre possono continuare a dormire tra due cuscini.

Non c’e’ niente di immanente negli scenari che si suggeriscono nel documentario vincitore di sei awards e in vendita per 9,99 $ qui.

alfuomoIn realtà è tanto più semplice ed efficace affidarsi al  buon senso  del materialismo dialettico , all’idiona marcatamente rivoluzionario che ci ispira a rimanere coi piedi piantati in terra ogni giorno, di fare ora e subito tutto ciò che ci è possibile fare allo scopo di cambiare in maniera significativa e permanente gli squilibri attuali,  dare uno scossone agli assetti che, in virtù di poche migliaia di anni di addomesticamento dell’animale umano, hanno trasformato in un inferno la vita su questo mondo per la maggioranza di loro, una vita,  l’unica  certa di cui si dispone e che tutti quei soggetti più vulnerabili o appetibili  nel corso del loro transito in questa dimenzione terrena ne subiscono la peggiore delle sorti, ne conoscono solo i sentimenti più nefasti  generati dalla attuale cultura specista: la discriminazione escludente, l’oppressione, la disposizione interiore a infliggere sofferenze agli altri, la morte.

Noi e i nostri fratelli non umani siamo la carne del mondo.

Per il Trailer ufficiale del documentario navigare qui

Alcuni corsivi in questo blog sono tratti dal libro Penne e Pellicole di Maggio/Filippi autori e attivisti per la liberazione animale che ringraziamo e salutiamo.

Il Crepuscolo del Capitale

revolutionIn “ Impotenza della Rinuncia” un aforisma apparso in Crepuscolo ( appunti presi in Germania tra il 1926 e il 1931 ) il pensatore ( e più tardi esule ebreo in fuga dai nazisti ) Max Horkheimer scriveva:

Se non sei tagliato per il lavoro politico, saresti sciocco a pensare che ciò nonostante il tuo volger le spalle alla macchina generale dello sfruttamento potrebbe significare qualcosa. Il tuo rifiuto di profittare d’ora innanzi della grande tortura cui sono sottoposti uomini e animali, la tua determinazione di rinunciare alla comodità e alla sicurezza, non risparmierà sofferenza a nessun uomo e a nessun animale. Non puoi riprometterti neppure di far si che un numero sufficiente di altri uomini imitino efficacemente il tuo modo di agire; nella storia moderna la propaganda della rinuncia personale, della purezza individuale è sempre servita ai potenti per trattenere le loro vittime da azioni pericolose, ed è costantemente degenerata in settarismo.

La costante riduzione della miseria è il risultato di lunghe lotte storiche di portata mondiale, le cui tappe sono contrassegnate da rivoluzioni riuscite e mancate. La partecipazione attiva a esse non è resa possibile dalla compassione, ma dall’intelligenza, dal coraggio, dalla capacità organizzativa; ogni successo comporta il pericolo di terribili contraccolpi, di nuova barbarie, di accresciute sofferenze, Se ti mancano quelle qualità, non hai alcuna possibilità di aiutare la generalità ( e, ci permettiamo di aggiungere noi, di promuovere un cambiamento permanente negli usi e nei costumi ).

Tuttavia la consapevolezza dell’inefficacia della rinuncia individuale non fonda o giustifica affatto il contrario: la partecipazione all’oppressione, essa significa soltanto che la sua purezza personale è irrilevante ai fini della trasformazione reale: la classe dominante non ti seguirà. Ma può succedere che , pur non disponendo di una motivazione razionale, tu perda ogni gusto alla comunanza con i boia e rifiuti l’invito …( a collaborare con questi )…revolution2

In questo preciso momento storico, nel contesto delle lotte di liberazione a più ampio respiro, quei momenti di opposizione concreta all’esistente e di resistenza attiva al sistema capitalistico che devono includere anche e sopratutto lo svincolo degli animali non umani dal dominio dell’umano e la difesa dell’ambiente che ci accoglie tutti, tale illuminante pensiero, espresso 75 anni fa, oltre che ad essere ancora attuale in un discorso di critica radicale all’odierna società dei consumi di massa  sembra anche utile per mettere in prospettiva la discussione in corso nei circoli Vegan e Antispecisti ( che per alcuni potrebbero apparire di nicchia, ma che non lo sono alla luce dei contenuti che trasmettono  ).

La questione è quella relativa all’importanza di maturare una coscienza politica che superi l’attivismo centrato alla sola salvaguardia e protezione degli altri animali nella consapevolezza che la civiltà umana tutta fonda i propri principi sullo sfruttamento brutale della Natura e sull’oppressione delle popolazioni umane e non umane, opportunamente categorizzate in umane, meno che umane, animali, al disegno globale dei governi e delle corporazioni commerciali.

I grandi marchi dell’industria alimentare si sono lanciati recentemente nella produzione e nella commercializzazione di prodotti rivolti a quel 10 per cento della popolazione italiana che per motivi diversi ha deciso di non sostenere più coi loro acquisti tale industria in quanto moralmente insostenibile, vuoi per l’inaccettabile livello di  crudeltà insita nei processi di allevamento e di uccisione degli animali, vuoi per salutismo relati al consumo di carne e derivati ( tumori, malattie cardiovascolari, diabete, ipertensione, impotenza ), vuoi per il tremendo impatto che l’attuale modello di sviluppo stà esercitando sul pianeta ( effetto serra, inaridimento del suolo, deforestazione, contaminazione delle risorse idriche, iniqua distribuzione delle ricchezze, ingiustizia sociale diffusa ).

Invitiamo a visitare la rivista online Veganzetta per approfondire le ragioni per cui la semplice scelta alimentare vegana senza modificare il proprio atteggiamento generale in rispetto alla società dei consumi non produrrà alcun cambiamento se non quello di fornire al grosso capitale succulente occasioni per creare nuovi margini di profitto e nuovi mercati rivolgendosi a questi consumatori senza rinunciare alla produzione di alimenti che derivano direttamente dallo sfruttamento degli animali e dall’utilizzo sconsiderato di risorse naturali.
L’articolo in questione e il relativo dibattito  qui.

Il “collapse party” per  celebrare  l’eventuale crepuscolo del Capitale e sulla sua  asfissiante presa su tutto il mondo vivente non muove nè dal panino vegan acquistato al negozio dietro l’angolo, nè dalla constatata disponibilità di seitan e tofu ovunque si desideri fare shopping, muove da dentro e magari possiamo cominciare da subito ad anticiparne il gusto e il frastuono se ce lo sentiamo davvero nel cuore.

La felicita’ non e’ trovare prodotti vegani nei supermercati, bensi’ non trovare supermercati

da Knightsbridge alla Maremma : Siamo tutti Terrestri

Sabato 31 Gennaio 2015 si è svolta di fronte ai magazzini Harrods a Knightsbridge, Londra, la seconda manifestazione contro la commercializzazione di indumenti derivati dalla odiosa pratica dello sfruttamento di animali da parte dell’industria delle pellicce. harrods demo

Come si vede dalle foto alcuni coraggiosi attivisti, sfidando il freddo oltre che le inibizioni personali, si sono denudati completamente davanti all’ingresso principale dei magazzini mostrando cartelli e gridando slogan mentre venivano distribuiti volantini in cui si aricolano le motivazioni del presidio.

Piuttosto nudi che in pelliccia…

…Come dire, non ci interessano i vostri manufatti sporchi di sangue, rifiutiamo ogni pratica di dominio e di sfruttamento giustificata dalla sete di profitto e dalla callosa insensibilità alla sofferenza esibita dal comparto della moda e dalle lobby degli stilisti i quali, con alcune significative eccezioni, di anno in anno, promuovono la diffusione di cappotti, giacche, stivali, guanti e cappelli ricavati integralmente o contenenti inserti ricavati dall’uccisione di animali appositamente allevati da imprenditori senza scrupoli o prelevati dal loro ambiente naturale dai cacciatori.

Le modalità di allevamento e di cattura, incluse quelle di uccisione e trattamento, di queste vittime indifese, sono ben documentate sulla Rete, basta soltanto andare a cercarle oppure prestare attenzione alle azioni di divulgazione e di denuncia che si susseguono ad opera di gruppi di militanti antispecisti attivi sul territorio.

Anche a Grosseto si svolgono da anni azioni simili a quella di sabato scorso a Londra, azioni mirate a sensibilizzare quei cittadini più distratti i quali sostengono coi loro acquisti compulsivi l’efferata e criminale industria delle pellicce.

La prima di queste si tenne in città 2 anni fa ad opera di un gruppo di attivisti i quali, partendo da un presidio informativo organizzato da Associazione D’Idee Onlus in piazza Dante, improvvisò una passeggiata tra le vie del centro con soste nei pressi di due pelliccerie ( qui il video dell’iniziativa ). In quell’occasione gli attivisti si limitarono a svestirsi fino alla biancheria intima e ad indossare cartelli per coprirsi.

La seconda, più recente, risale all’Ottobre scorso; anche in questa occasione, a seguire un presidio scenografico e la lettura in piazza di alcuni testi critici contro l’industria della moda e delle pellicce, un piccolo gruppo di volontari si è denudato parzialmente rilanciando lo slogan “piuttosto nudi che in pelliccia” al suono di musica elettronica diffusa da un soundsystem ( indovinate quale ? ) posizionato nell’area ( qui il video dell’iniziativa ).

Persino la rispettabile e moderata LAV,  il gruppo di Arezzo di questa associazione nazionale, nel 2011 osò tanto: http://www.arezzoweb.it/2011/lav-meglio-nudi-che-in-pelliccia-68254.html

meglio nudiPaese cha vai codici e leggi che trovi: sappiamo che in Inghilterra l’atto di denudarsi in pubblico NON costituisce reato a meno che a seguito di tale azione accada qualcosa d’altro che la normativa anglosassone definisce un breach of the peace, ovvero un qualche evento che si configura quale reato. In tal caso le persone nude in pubblico possono venire arrestate e processate.

Qua da noi si rischia la denuncia e il carcere per molto meno, ma è meglio non entrare nello specifico così da non attivare gli organi  cui sono affidate le faccende di “ordine pubblico”  sul territorio ad avviare o a riprendere procedimenti ai danni delle persone coinvolte le quali subirebbero un trattamento tale e quale quello riservato a dei comuni criminali meglio nudi 2.

Di fatto, ci sembra che a fronte dell’orrore senza fine e alla crudeltà cui vengono sottoposti gli animali a tutti i livelli  – per garantire ai loro padroni umani l’opulenta esibizione dell’ingordigia, della scelleratezza e della pochezza intellettuale che li anima – abbiamo in dotazione uno strumento decisivo che colpisce diritto al segno: la nostra nudità, il nostro essere “carne del mondo”, la nostra vulnerabilità e finitudine.

Queste le qualità tabù che quando deliberatamente ostentate, sembrano costituire evidenza  insieme intollerabile e insopprimibile per i garanti e per i custodi del Sistema, un insieme di norme, comportamenti e abitudini che ci rende insensibili alle angosciose condizioni di vita e alle penose procedure di messa a morte riservate ai nostri fratelli non umani, che ci desidera mansueti automi al servizio dell’economia e del supposto progresso sui quali poggiano privilegi di classe e di specie.

“L’umano” si è sempre definito come differenza da “l’Animale” e in questa differenza, gli animali, quelli realmente esistenti, sono stati persi di vista per essere trasformati in merce, forza lavoro, divertimento e spettacolo ( da Penne e Pellicole di Filippi/Maggio, Mimesis 2014 ).

Agli attivisti inglesi ( in particolare alla promotrice dell’evento londinese Heidi Mary Porter ) e a quelli locali la nostra simpatia e la nostra incondizionata solidarietà consapevoli del fatto che tutte le grandi battaglie che danno impulso avviando reali cambiamenti evolutivi nei rapporti inter e intra specifici si combattono anche e sopratutto risvegliando quell’animalità soppressa che continua ad vivacizzarci nonostante almeno 2 secoli di cultura illuminista, la quale non ha fatto che sostituirsi alle credenze magico/religiose che imbrigliavano oscurandoli gli orizzonti umani  dell’epoca, per imporre attraverso i dettami della scienza moderna una propria univoca, incontestabile, dogmatica visione antropocentrica del mondo.

In verità, lo sappiamo bene, siamo tutti terrestri.

Piani di immanenza

animality_by_psychommantis-d6bim31Animalità significa immaginare una soggettività non scissa in corpo e mente, cioè una vita umana in grado di esaurirsi tutta, senza alcun residuo, nella vita che già si vive, peraltro l’unica che possiamo vivere, una soggettività..( che ).. non è più tagliata in due fra la vita qui e la vita là, che ancora non si vive, e che forse si vivrà un giorno.

La vita che immaginiamo è una vita del tutto priva di trascendenza…ripensare l’animalità dell’umano…il suo essere corpo, significa pensare al tema dell’immanenza, ossia appunto ad una vita che non sente alcun bisogno di proiettarsi oltre di sé.

L’animalità è stata tenacemente allontanata dalla definizione dell’umano. …gli animali non li abbiamo  davvero neanche mai osservati.

Gli unici animali che conosciamo sono quelli che abbiamo inventato noi.

Una unica categoria sterminata di animali ( che ) non esistono, ( una categoria ) che se esclude l’umano non ha alcun senso che esista.

Felice Cimatti Filosofia dell’animalità